È del 1958 il poemetto lungo di Amelia Rosselli intitolato La libellula (Panegirico della libertà) che, pur appartenendo alla fase giovanile della scrittrice (nata nel 1930 a Parigi), presenta molte delle linee fondamentali su cui si svilupperà la sua intera poetica. Nel 1985 l’autrice decide di ristampare l’opera in un’edizione fornita di sue note personali, nelle quali evidenzia le citazioni, incuneate nel componimento, dei poeti che hanno contribuito alla sua formazione: sono versi di Campana, Scipione, Rimbaud e Montale, utilizzati come spunti che poi vengono «sviluppati» e «manipolati».1 Il titolo – spiega la Rosselli nelle Note – richiama «il movimento quasi rotatorio delle ali della libellula, e questo in riferimento al tono piuttosto volatile del poema»; ma il termine ricorda pure «libello» e «libertà», evocando così la traccia, o il concetto dominante dell’opera. Libertà di movimento, dunque, di scrivere e di poetare, che Amelia Rosselli dimostra nella costante ricerca linguistica, che la rende una personalità poetica indecifrabile e davvero originale nel panorama della letteratura italiana del secondo Novecento. La sperimentazione linguistica – per cui spesso la poetessa viene avvicinata al Gruppo ’63, sebbene la sua sia una posizione di tangenza – nasce dalla mescolanza delle tre lingue che ne hanno accompagnato la vita: il francese dei primi anni parigini; l’inglese materno, utilizzato a Londra dopo la fuga del 1940 e in seguito a New York; e l’italiano, la lingua del padre Carlo Rosselli (Amelia giunge a Roma in seguito a dolorose vicende familiari di esilio e di lutti).
La sua perizia poetica si avvale poi di un’altra lingua fondamentale, la musica, che la scrittrice affronta grazie allo studio del violino, del pianoforte e della composizione. Aperta alle diverse contaminazioni, la sua poesia non può collocarsi in alcun luogo stabile, e il suo linguaggio, definito «deterritorializzato», riflette la condizione di una identità sempre in fuga («E così saprai chi sono; la stupida ape che ronza / per un punto fermo…»). L’instabilità si avverte sin da subito nella struttura: La libellula è formata come da frammenti in versi, spezzoni disarticolati che trovano continuità nel ripetersi di immagini e parole. Il risultato ha «forma di drago che si mangia la coda», dove la fine si ricollega al principio «se il poema viene letto scioltamente, intuitivamente» come la Rosselli suggerisce.
[... ] Non so se io sì o no mi morirò di fame,
paura, gli occhi troppo aperti per miracolosamente
mangiare [...]
lo non so se tra il sorriso della verde estate
e la tua verde differenza vi sia una differenza
io non so se io rimo per incanto o per travagliata
pena. lo non so se rimo per incanto o per ragione
e non so se tu lo sai che rimo interamente
per te [...]
io nonso se tu cadi o tu tremi, tu non sai se io piango
o dispero. Disperare, disperare, disperare, è
tutto un fabbricare. Tu non sai se io piango
o dispero, tu non sai se io rido o dispero.Io
non so se tra le pallide rocce il tuo sorriso.
Tu cercherai di sorvegliare questo mio pozzo che è più profondo del tuo, ma la acqua vi è divenuta troppo limacciosa e io non voglio sospirare per la senilità di lingue toscane. Dunque stirati nei tuoi ben rivestiti stivaloni ricoperti di peli dei più scelti animali e senti il mio cuore di gomma ma anche di sabbia scottante battere se ancora batte per un uomo |
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